Oggi le scuole di pensiero che attraversano il nostro calcio sono sostanzialmente due, una che ha come programma quello d’imporre il proprio gioco grazie al possesso palla, l'altra è invece quella che programma la sua didattica tattica sull’avversario in modo da usare le ripartenze come foglio protocollo per agire negli spazi e non uscire fuori tema. La Fiorentina di Montella ci ha insegnato ad amare un tipo di calcio che alcune volte è costretto a scontrarsi anche con la difficoltà del tifoso più restio ad abbandonare le praterie mentali del contropedie. Perché il nostro gioco avvolge come una pancera, o se preferite come la pancetta un bel pezzo di filetto di maiale, per larghi tratti sviluppa le sue trame in orizzontale, e alcune volte sviluppa anche le tossine tipiche del grasso di maiale, di quando cioè ti ritrovi il secchione che frequenta l’altra scuola e t’infila ferocemente con due passaggi in verticale, così come i denti quando vanno a staccare la carne dalle costole della rosticciana. Possiamo dire che alcuni scambiano la fitta rete di passaggi per uno sviluppo sterile del gioco, non a caso è ritenuto proprio Mazzarri il vero antidoto a Montella. Se volessimo fare un parallelo letterario, il calcio della Fiorentina viene letto come una scrittura ridondante, barocca, molto descrittiva, piena di paesaggi in orizzontale, una scrittura con ripetuti cambi di scenario e che poi improvvisamente cerca di entrare nel vivo del racconto per vie centrali. La maggior parte degli altri usa invece una scrittura più asciutta, molto diretta, periodi corti e lanci lunghi, spesso ambientata in ampi spazi sconfinati, la filosofia della tundra contro il giardino all’italiana, dove la tundra è una scrittura passiva che vive di sintesi tra la desolazione tattica. E se posso fare ancora un altro parallelo mi viene in mente in ambito religioso chi come i mazzarriani se ne vanno per santuari alla ricerca del miracolo, che al pari di un gratta e vinci può risolvere in un colpo solo i problemi di una partita, un contropiede insomma. Un lancione della disperazione. E’ chiaro che il miracolo non sempre riesce, specie se a lanciare il contropiede c’è Montolivo, ma la filosofia di base è quella del religioso sparagnino che cerca il colpaccio per arrivare al Dio del gol. La mia religiosità come detto è all’opposto, ha bisogno di frequentazione assidua della parrocchia, gruppi di ascolto cattolici che si scambiano in continuazione il segno della pace. Poi la fede prevale però, e anche se non trovi sbocchi nella manovra continui con la fiducia che solo la fede Viola può darti, e riparti fino a quando il tuo cuore non si apre all’emozione del varco giusto. Insomma, Medjugorje o la parrocchia di Serumido, oppure ancora, Lourdes o il convento vicino casa, il convento perfetto che racchiude in tutto e per tutto il credo montelliano. Un posto sempre equilibrato, alcune volte anche ironico perché le suore si travestono da pinguini, dove non si alzano mai i toni e c’è sempre un ridondante brusio di fondo, dove il possesso palla equivale alla litania della preghiera. Ci si confida bene, si parla, si parla, da destra a sinistra con ripetuti cambi di fronte per far spostare quel diavolo di avversario e poi trovare la via del gol, e per farvi capire meglio come questo convento sia perfettamente attinente alla filosofia di gioco di Montella devo per forza contestualizzarlo in San Frediano dove peraltro si trova. Di fronte a casa mia c’è un convento di suore che appartengono all’Ordine delle “Beate ancelle del Divino zelo umili e devote del sacro cuore purissimo di Nostra Signora Maria Santissima Madre Celeste di Gesù Bambino figlio di Dio Onnipotente creatore del cielo e della terra”. Il convento è una casupola piccola e raccolta. In compenso l’insegna è lunga più di 30 metri.