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venerdì 6 ottobre 2017

Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna



L'arte mi era sempre piaciuta. L’avevo studiata e imparata qua e là, anche se non sono mai riuscito a metterla da parte per colpa dei ricettatori di via Maggio. Una volta tentai di staccarla dalla parete, suonò l'allarme e presi 18 mesi. Due gravidanze senza nemmeno trombare. Quel giorno a Palazzo Strozzi mi sentivo bene, attirato da un quadro di Andrea del Sarto sullo sfondo. Una volta davanti però si appannò tutto e cominciarono a sudarmi le mani. Mi girava la testa. Mentre cadevo mi resi conto di aver dimenticato a casa l’Amuchina. Un operatore museale avanzò zoppicando come Saponara, e parlò subito di Sindrome di Stendhal. Cercai di spiegargli che non poteva essere perché quel quadro faceva cacare. Quando mi ripresi riuscì a dirgli che ero rimasto impressionato dalla sua collega sulla porta. La severità, ma soprattutto la somiglianza impressionante mi avevano ricordato la Burbassi di via del Campuccio. Una che quando veniva gemeva in francese, ma non per amore degli impressionisti come scoprì solo più tardi. “Oui, oui, oui Michel”, era fissata con Platini. "Mi chiamo Gianni troia".

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