.

.

venerdì 18 agosto 2023

di minoranza ma con garage (storia di Mediacom scritta da un posto auto coperto)


Potrebbe essere la trama di un film di Frank Capra: l'emigrante, l'infanzia povera, l'eccellenza negli studi, la carriera in banca, un ruolo di vice presidente in un'industria del settore delle tv via cavo, la voglia di mettersi in proprio, partendo da zero nell'autorimessa di casa in una calda estate del 1995, fino all'ingresso, in meno di cinque anni, al Nasdaq, tempio della tecnologia, per spiccare da lì un volo inarrestabile: al contrario, molto più prosaicamente, è una storia come tante di capitalismo americano.

La strategia di Mediacom è esplicita sin dagli albori: acquisire aziende proprietarie di sistemi di tv via cavo, che siano in non eccellenti condizioni economico-finanziarie e che si trovino nelle aree meno popolate degli Usa, ma con alta probabilità di sviluppo demografico,. Alla fine del 1998, dopo tre anni e mezzo di attività e 9 piccole società già acquisite, Mediacom ha accumulato perdite per un totale di 46,34 milioni; e nel 1998 ha fatturato 129,297 milioni, ha un patrimonio netto di 78,65 milioni e debiti, già cospicui, pari a 337,9 milioni.

Nel 1999, anno che Commisso, con il suo proverbiale equilibrio nei giudizi, definisce “fenomenale per la compagnia”, Mediacom ingloba Triax e Zylstra, pagandole in tutto 759,6 milioni, 740 la prima e 19,6 la seconda, e i clienti raddoppiano a poco più di 700mila. Come faccia una società, con una tale struttura economico-finanziaria, a potersi sobbarcare un investimento così pesante sfugge alla logica economica. Eppure, Mediacom riesce a ottenere un finanziamento bancario a 9 anni di 1,1 miliardi e chiude con successo l'emissione di un prestito obbligazionario cosiddetto senior, cioè un credito privilegiato per i sottoscrittori, per 125 milioni con scadenza 2011 al tasso del 7,875%.

La Mediacom che sbarca al Nasdaq nel febbraio 2000 è un'azienda che fattura poco più di 176 milioni di dollari, ha chiuso l'esercizio 1999, quello “fenomenale”, con un rosso di 81,32 milioni, portando dunque le perdite totali dal 1995 a 127,66 milioni, e ha un debito salito a 1,139 miliardi.

In Italia non sarebbe ipotizzabile nemmeno sognare la quotazione, figurarsi ottenerla, ma negli Usa le cose vanno in altro modo; così, l'azienda viene scortata al listino tecnologico dai nomi importanti della finanza: Goldman Sachs, Merrill Lynch, Salomon Smith Barney, Credit Suisse e altri meno noti garantiscono il successo del collocamento di 20 milioni di azioni al prezzo di 19 dollari: l'incasso netto per Mediacom è pari a 354,4 milioni, i restanti 25,6 sono le commissioni pagate al consorzio delle banche.

Nel frattempo, prosegue la campagna di acquisizioni: sono altre 9 nel 2000. Il fatturato sfiora il raddoppio, salendo da 176,05 a 332,05 milioni, ma salgono di molto anche le perdite: 149,85 milioni. Il debito scende, attestandosi di poco sotto il miliardo.
Gli anni dal 2001 al 2005 sono una replica: cresce il fatturato, crescono le perdite e di conseguenza diminuisce il patrimonio netto, crescono i debiti netti e Commisso conferma uno stile misurato: “we made tremendous progress”, “this was a milestone year”, “free cash flow grew dramatically”. Sarà pure come dice lui, ma di tremendo e di drammatico ci sono solo le perdite e l'indebitamento: beninteso, il fatturato è cresciuto di record in record fino a 1,099 miliardi, ma altrettanto hanno fatto le perdite, salite nel 2005 a 222,228 milioni, mentre il debito netto ha sfondato di poco i 3 miliardi.

Il 2005 è finito: da poco più di cinque mesi, Mediacom ha spento 10 candeline. Potrebbe allora essere utile riavvolgere velocemente il nastro, per avere un quadro più nitido: il fatturato è cresciuto costantemente e in maniera considerevole, passando dai 5,411 milioni del 1996, primo anno di operatività del gruppo, a 1,099 miliardi del 2005: non c'è stato un solo trimestre di calo rispetto al precedente. Tutto bene, dunque? Assolutamente no. L'incremento dei ricavi non è stato sufficiente a produrre utili, perché i costi hanno seguito un analogo percorso: così, anno dopo anno, la società ha accumulato perdite complessive pari a 901,191 milioni, con il fresco record di 222,228 milioni; perciò, i versamenti di capitale e i proventi della quotazione in Borsa sono stati sostanzialmente prosciugati: il patrimonio netto è sceso a 59,107 milioni, a fronte di un debito netto di 3,042 miliardi. 

In ogni manuale di economia aziendale si leggerebbe lo stesso, inappellabile giudizio: fortissimo squilibrio patrimoniale e finanziario. Senza farla troppo lunga, un rapporto equilibrato tra patrimonio netto e attivo patrimoniale è considerato dalla dottrina pari al 50%; livello molto flessibile, peraltro, perché si scontra con la realtà di aziende strutturalmente sottocapitalizzate nell'età del capitalismo finanziario, tanto che, nel tempo, la dottrina ha considerato accettabile anche un valore del 25%: ebbene, nel caso di Mediacom il livello è 59,107/3.649,498= 1,62%... e qui Lando Buzzanca di “Signore e signora” avrebbe esclamato un bel: “Mi vien che ridere!”.

Facciamo adesso un salto in avanti di tre anni: il copione è simile, perché il fatturato ha continuato a inanellare record, attestandosi a 1,401 miliardi nel 2008, ma le perdite annuali, sebbene in diminuzione rispetto al massimo del 2005, sono cresciute complessivamente di altri 297,545 milioni. Per il loro effetto, il patrimonio netto è diventato negativo già nel 2006 e peggiora fino al 2008: -346,644 milioni! Inutile calcolare gli indici di bilancio: secondo la legge italiana, un'azienda, il cui patrimonio netto diventi negativo, o ricapitalizza o porta i libri in tribunale. Negli Usa, le regole sono molto lasche e non pongono tale alternativa, ma dal punto di vista economico la situazione è chiara: Mediacom sopravvive solo perché la finanza la tiene in vita da anni. I numeri sono esplicativi: debito netto di 3,248 miliardi, patrimonio netto negativo e perdite in 13 anni di attività pari a 1,199 miliardi.

E guardiamolo più da vicino, l'aiuto decisivo della finanza: un prestito di 335 milioni a due anni dall'avvio, il collocamento di un'obbligazione da 200 milioni, e poi nel 1999, chiuso il prestito iniziale, una linea di credito di 1,1 miliardi con scadenza nel 2008, rinegoziata nel 2004 a 1,15 miliardi con scadenza posticipata al 2013; e, sempre nel 1999, il collocamento di un'altra obbligazione da 125 milioni con scadenza 2011; nel 2000 lo sbarco al Nasdaq con un beneficio di 354,4 milioni; nel 2001, anno d'oro, una linea di credito aggiuntiva da 1,4 miliardi con scadenza 2010, l'emissione di un'obbligazione convertibile di 172,5 milioni con scadenza 2006 e di due obbligazioni, una da 500 e l'altra da 400 milioni con scadenza nel 2013, nonché il collocamento di una nuova quota di azioni in Borsa per un incasso di circa 433 milioni. E la linea di credito di 1,15 miliardi del 2004? Rinegoziata nel 2006 e portata a 1,25 miliardi e poi ancora nel 2009 e portata a 1,55 miliardi. Così come la linea di credito da 1,4 miliardi rinegoziata nel 2006 e portata a 1,6 miliardi. Sempre con tassi di interesse più favorevoli.

Quale insegnamento si può trarre da una vicenda che è più comune di quanto appaia a uno sguardo superficiale? Che è come giocare sempre sul nero alla roulette, avendo a disposizione un capitale infinito e nessun limite alla puntata; per quante volte consecutive esca il rosso, basta la prima volta del nero per vincere.

E il nero, cioè in questo caso l'utile di bilancio, esce nel 2009: miracoli della legislazione fiscale americana, che ha consentito di ottenere un beneficio non monetario: in sostanza, si tratta di attività fiscali differite, legate in gran parte ai 2,4 miliardi di dollari di perdite operative nette accumulate, che, se non utilizzate, sarebbero scadute tra il 2020 e il 2029. L'operazione è provvidenziale per i conti: il beneficio fiscale, pari a ben 662,4 milioni, fa risultare un utile netto ipertrofico di 744,067 milioni, riportando in positivo il patrimonio netto, a 265,028 milioni. Non essendo un'operazione di carattere monetario, essa non ha influito sul debito netto, salito a 3,284 miliardi.

Entrare al Nasdaq è il sogno di qualunque azienda tecnologica: Mediacom lo realizza il 4 febbraio 2000; è un periodo di grande euforia, che ha contagiato miriadi di persone sia al di là che al di qua dell'Atlantico, dove anche il barista e il fruttivendolo si scoprono guru della finanza, raccontando dei loro clamorosi guadagni in pochi giorni. Certo, Mediacom è un po' un'imbucata alla festa: fondata quattro anni e mezzo prima, è la nona tv via cavo americana, ha sempre chiuso il bilancio in perdita, e al 31 dicembre 1999 si ritrovava con un fatturato annuo di 176,052 milioni di dollari, grazie a 744mila abbonati in un Paese di 282 milioni di abitanti, un patrimonio netto di 54,615 milioni, un rosso annuo di 81,32 milioni, debiti per 1,139 miliardi e appena 4,473 milioni di liquidità. Però, dispone di uno stuolo di famosissimi accompagnatori: Credit Suisse First Boston e Salomon Smith Barney sono alla guida del consorzio, che ha garantito il buon esito del collocamento di 20 milioni di azioni, di cui fanno parte anche Goldman Sachs, Merrill Lynch, Chase Securities più altri nomi meno noti al grande pubblico.

Prima della quotazione al Nasdaq, il patrimonio netto di Mediacom era suddiviso in 70 milioni di azioni del valore nominale di un centesimo, forse per inneggiare a zio Paperone; essendo esso pari a 54,615 milioni, il valore contabile di un'azione era perciò di 78 centesimi: ebbene, il prezzo di collocamento è stato di 19 dollari! Bingoooooo! Sia chiaro, non la prima né l'ultima magìa della finanza. Brinda il cassiere di Mediacom per l'incasso lordo di 380 milioni, da cui detrarre un obolo di 25,6 milioni per le banche collocatrici.

E i nuovi azionisti? Loro brindano poco: il massimo a cui arrivano le azioni immediatamente dopo il collocamento è 19,75 dollari e verso la fine dell'anno il titolo ondeggia sui 15 dollari. Ma il 2001 parte alla grande: nel primo trimestre, il titolo raggiunge i 22,06 e, in quello seguente, i 21,99 dollari; segno della fiducia crescente del mercato, dicono gli apologeti. Macché: la realtà è che il prezzo è tenuto su, in vista di una nuova infornata; anche in questo caso, niente di nuovo sotto il sole. Il 27 giugno termina il secondo aumento di capitale destinato al mercato: 29 milioni e 900 mila azioni al prezzo di 15,22 dollari per un incasso lordo di 455,078 milioni e netto di 432,878. Se prima brindavano poco, da oggi i piccoli azionisti diventano astemi: nel 2002, il titolo scende fino a un minimo di 3,63 dollari, e negli anni successivi arriverà al massimo poco sopra i 10 dollari e al minimo a 2 dollari dopo il crac di Lehman del settembre 2008, ma stazionerà perlopiù intorno ai 5 dollari. E di dividendi neanche a parlarne, anche perché gli utili non ci sono: peraltro, Mediacom è stata esplicita nei prospetti informativi: “Non abbiamo mai dichiarato o pagato alcun dividendo sulle nostre azioni. Al momento prevediamo che tutti i nostri utili futuri saranno usati nello sviluppo della nostra attività”. 

Futuri, appunto. Nel frattempo, il consiglio di amministrazione di Mediacom aveva deliberato un piano di riacquisto di azioni proprie, andato avanti dal 2002 al 2008, per un totale massimo di 200 milioni: in tutto, saranno acquistate azioni per un controvalore di 153 milioni. E si arriva al 2010: la storia di Mediacom al Nasdaq volge al termine. Lunedì 31 maggio il consiglio di amministrazione riceve da Commisso una proposta di acquisto di tutte le azioni: il prezzo offerto è di 6 dollari, con un premio del 13% sulla chiusura del venerdì precedente e del 16% sulla chiusura media degli ultimi sei mesi. Il cda nomina una cosiddetta Commissione Speciale per valutare la proposta: Commisso è forte dell'appoggio di Jp Morgan e Bank of America-Merrill Lynch, che hanno presentato diversi metodi di valutazione per dichiarare la congruità del prezzo offerto. Tuttavia, la commissione boccia la proposta e il 31 agosto Commisso ritira l'offerta dichiarandosi “molto contrariato per la procedura altamente inconsueta e per le regole di base stabilite dalla Commissione e dai suoi consulenti finanziari e legali” e aggiungendo che tale decisione non sia nell'interesse degli azionisti. Normali tiremmolla fra acquirente e venditore; il 15 novembre è scritta la parola fine: Commisso alza l'offerta a 8,75 dollari, la proposta è accettata, così egli ne diventa il solo azionista e Mediacom dà l'addio al Nasdaq.

Il 4 marzo 2011 giunge a conclusione la non lunga apparizione di Mediacom al Nasdaq: è il giorno in cui si completa la procedura di acquisto del 100% delle azioni, partita il 31 maggio dell'anno precedente con la proposta di Commisso, prima rifiutata, poi aumentata e infine accettata il 15 novembre. Apparizione molto soddisfacente per il gruppo, che ha potuto incassare 835,078 milioni netti, quasi il triplo del fatturato del 2000, e del tutto negativa per i piccoli azionisti, a digiuno di dividendi e con un prezzo finale di 8,75 dollari più che dimezzato rispetto a quello iniziale di 19: non a caso lo chiamano parco buoi.

L'addio al Nasdaq libera Mediacom dall'obbligo di certificazione dei bilanci e di informative dettagliate: Commisso ne approfitta subito; beninteso, tutto lecito, ma certo non il miglior biglietto da visita per chi sbandieri la trasparenza. Così, già nel bilancio 2010, approvato dopo l'addio al Nasdaq, manca il dato chiave: utile o perdita?

Senza più obblighi, anno dopo anno, si assiste a un decrescendo di informazioni; fino al 2015 sono a disposizione i bilanci di Mediacom Broadband LLC e di Mediacom Capital LLC, due consociate della capogruppo Mediacom Communications Corporation, ma non quello fondamentale, cioè il bilancio consolidato; dal 2016, la capogruppo rende disponibili, attraverso comunicati trimestrali, solo alcuni dati: niente che serva a un'analisi esauriente, perché continua a non esserci traccia del risultato dell'esercizio, mentre sono annotati l'OIBDA (reddito operativo al lordo di svalutazioni e ammortamenti) e il flusso di cassa libero, che, come Mediacom rileva, sono NON GAAP, cioè non aderenti ai principi contabili generalmente accettati: un po' come giudicare la bontà di una pizza dal panetto. E, per dire che nel 2021 è stato sfondato di poco il miliardo di OIBDA, Mediacom ricorre all'OIBDA cosiddetto adjusted, altrimenti il valore sarebbe stato pari a 997,328 milioni: insomma, pura scenografia. Non è tutto: i dati si interrompono il 23 febbraio 2022, e si riferiscono al 2021. Certo, l'andamento crescente dei ricavi – 100 trimestri consecutivi in aumento - e decrescente dei debiti netti, scesi a 1,232 miliardi, fa considerare come sicuro il raggiungimento dell'utile, ma non l'anno in cui ciò è accaduto, né la sua entità complessiva: il dato certificato è che, fino alla fine del 2009, le perdite accumulate erano pari a 454,669 milioni.

Nonostante un'informazione frammentaria, i ricavi sono ben descritti: c'è il record di 100 trimestri consecutivi con il segno più da mettere in vetrina. La propaganda costruita da Mediacom narra di un'idea, quella della tv via cavo, da portare nelle zone rurali e periferiche degli Stati Uniti: proprio quell'idea vincente ha convinto le banche. Indubbiamente, una propaganda ben costruita e financo affascinante, che tuttavia ha il non trascurabile difetto di sbriciolarsi contro la realtà. Anzitutto, la tv via cavo è stata introdotta negli Usa alla fine degli Anni Quaranta del secolo scorso, perciò non siamo al cospetto di un'idea nuova di zecca: ma il punto non è questo.

C'è un lungo elenco di compagnie che avevano avuto la stessa idea, ma non gli stessi finanziamenti, e che erano già attive: Benchmark Communciations, acquisita da Mediacom nel marzo 1996 per 18,8 milioni, e, sempre nel 1996, Booth American Company, Saguaro Cable TV Investors e Valley Center Cable System rispettivamente per 11, 11,4 e 2,5 milioni, e poi, nel 1997, American Cable TV Investors per 42,6 e Cox Communication per 11,5 milioni, e ancora, nel 1998, Jones Intercable e Cablevision Systems Corporation per 21,4 e 313,4 milioni, e infine, nel 1999, Zylstra Communications e Triax Midwest Associates per 19,5 e 740,10 milioni.

Per portare a termine questa girandola di acquisizioni, Mediacom ha messo sul piatto 1,192 miliardi, avendo a disposizione un capitale iniziale di soli 4,537 milioni. Ma è la bontà dell'idea, ripete ossessivamente negli anni la propaganda aziendale; le compagnie comprate dal 1996 al 1999 avevano in tutto 716mila abbonati: ebbene, come si legge nel bilancio, alla fine del 1999 gli abbonati Mediacom erano 719mila! Appena tremila in più rispetto a quelli ereditati dalle compagnie fagocitate.

E la propaganda ribatte: gli inizi sono sempre difficili, i risultati si vedranno più in là. E vediamoli allora, questi risultati; sì, gli abbonati crescono rapidamente fino a 1,595 milioni: è il 2001 che Mediacom chiude in rosso di 190,876 milioni, in quel momento il peggior risultato della sua breve storia. Da allora in poi, però, è un'emorragia continua: 1,324 milioni nel 2007, 1,069 milioni nel 2011, 855mila nel 2015, 710mila nel 2019 e 572mila nel 2021. Davvero un'idea da finanziare quella della tv via cavo! Se Mediacom ha accresciuto il fatturato è per essersi gettata in altri settori, che nel suo piano industriale iniziale – quello in base al quale la propaganda sostiene di aver avuto i finanziamenti - non aveva considerato: trasmissione dati, digitalizzazione e telefonia.

Questo viaggio nella storia di Mediacom si conclude ripartendo dall'inizio: ossia, da quell'autorimessa di casa che un racconto mitologico descrive come il luogo in cui Rocco Commisso partorisce l'idea di mettersi in proprio. Dall'agosto 1986 egli era stato vice presidente operativo di Cablevision Industries Corporation, una tv via cavo; l'8 febbraio 1995, la società, che vantava 1,3 milioni di abbonati, fu acquisita da Time Warner, gigante delle telecomunicazioni. E Commisso? Decide il gran salto.

A luglio fonda Mediacom, con sede a New York, a cui dà la veste giuridica della LLC, limited liability company: pochissimi adempimenti e separazione del patrimonio dei soci dagli obblighi da essa assunti. Come in ogni storia che si rispetti, le cose si complicano immediatamente; nasce una piramide, di cui Mediacom LLC è il vertice: alla base stanno quattro società operative, con sede nel Delaware: Mediacom Delaware LLC, Mediacom South-East LLC, Mediacom California LLC e Mediacom Arizona LLC. Nel marzo 1998 se ne aggiunge una quinta: Mediacom Capital Corporation, con sede a New York, il cui unico scopo è quello di emettere titoli di debito e di collocarli sul mercato per finanziare l'operatività: capitale iniziale 100 dollari! Roba da ricchi, insomma. La capogruppo controlla interamente 4 società e il 99% di Mediacom California LLC, mentre l'1% è in mano a Mediacom Management Corporation con sede in Delaware: società del tutto particolare, la cui attività si limita a ricevere dalla capogruppo gli emolumenti destinati a tutti i dirigenti e a distribuirli. Sappiamo che il capitale netto di partenza di Mediacom LLC è pari a 5,490 milioni di dollari, 5,445 forniti dai soci e 45mila da Mediacom Management Corporation. Come sia suddivisa la capitalizzazione iniziale non è dato sapere; né si conosce il socio che nel 1996 ricapitalizza per un milione. Si sa però chi firma l'assegno di 45mila dollari: è Rocco Commisso, proprietario unico di Mediacom Management Corporation.

Qualche dettaglio in più emerge dai documenti delle due ricapitalizzazioni di 24,5 milioni del 1997: la metà esatta proviene da Morris Communications Corporation, una società del settore media, che ha sede ad Augusta, in Georgia, 4,9 milioni da CB Capital Investors L.P., società del gruppo Chase Manhattan Bank, e 2,45 milioni da U.S. Investor Inc, società finanziaria del gruppo Booth American Company, operante nel settore delle tv via cavo. E Commisso? Non appare. Copione simile per la ricapitalizzazione di 94 milioni del 1998: 79,832 milioni in capo a Morris Communication, 4,587 a CB Capital Investors e 2,294 a U.S. Investor.

Da dove sbucano questi soggetti? Risposta semplice semplice: sono soci di Mediacom!

La conferma è in un voluminoso documento di 1.128 pagine dell'agosto 1998, registrato alla Sec, la Consob americana, con il numero 333-57285: Morris Communications detiene il 64,52%, CB Capital il 9,54%, US Investor il 6,92%, Private Market Fund il 5,29%, BMO Financial, società del gruppo Bank of Montreal, il 3,79%, e altri piccoli azionisti lo 0,30%. E il presidente e amministratore delegato Rocco Commisso? Ha solo il 9,65%. Inevitabile saccheggiare il repertorio di Totò: alla faccia del bicarbonato di sodio! Chi ricorda il mega-finanziamento bancario da 1,1 miliardi concesso nel 1999, quello di cui era imperscrutabile la logica economica? Ebbene, l'agente amministrativo di tale finanziamento è proprio Chase Manhattan Bank.

Nella prospettiva dello sbarco al Nasdaq, Mediacom deve cambiare forma societaria, da LLC in corporation; sta ai soci decidere la nuova distribuzione. Sì, perché una delle caratteristiche della LLC è che i soci concordano tra loro come ripartire le quote senza che ci sia necessariamente una corrispondenza diretta con quanto ciascuno di essi ha versato. E qui avviene un fatto interessante: le nuove azioni Mediacom Communications Corporation, società del Delaware, sono suddivise in due classi, A e B, tutte del valore nominale di un centesimo. C'è una sola differenza: un'azione di classe A dà diritto a un voto, mentre una di classe B dà diritto a dieci voti. Quante azioni di classe A sono conferite a Commisso? Nessuna. Quante di classe B? 29.022.438. E quante sono in totale le azioni di classe B? 29.022.438.

In séguito alla nuova ripartizione, Commisso sale al 41,46% del capitale e all'87,63% dei voti, Morris Communications ha il 40,76% del capitale e l'8,62% dei voti, CB Capital Investors il 6,08% e l'1,29%, US Investors il 4,39% e lo 0,93%, Private Market Fund il 3,41% e lo 0,72%. Fra i soci minori, tutti a vario ruolo dirigenti della “nuova” Mediacom, c'è anche la sorella minore di Commisso, Italia, coniugata Weinand, che ha lo 0,37% del capitale e lo 0,79% dei voti.

Le due emissioni riservate al mercato, 20 milioni di azioni dello sbarco al Nasdaq del febbraio 2000, e 29,9 milioni di azioni del giugno 2001, diluiscono le partecipazioni di tutti, ma la maggioranza dei voti resta saldamente in mano a Commisso.

Si giunge infine al 2010, quando la Commissione speciale di Mediacom accetta la proposta di Commisso di acquistare le azioni al prezzo unitario di 8,75 dollari, diventandone l'unico socio: ne sono rimaste in circolazione 41,26 milioni, il 33,39% del capitale, perché negli anni Mediacom ha avviato un piano di riacquisto delle proprie azioni e nel 2009 ha rilevato l'intera quota in mano a Morris Communications per 110 milioni e un prezzo per azione di circa 3,90 dollari. Commisso deve provvedere anche al rimborso per la cancellazione delle opzioni riservate a dirigenti e dipendenti: il costo di tutta l'operazione è di 394,8 milioni. Pagata con soldi propri? No, caricata sul debito di Mediacom. Impossibile non ricordare una nota pubblicità del Gratta e Vinci: ti piace vincere facile?

Snappo


Nessun commento:

Posta un commento