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martedì 16 ottobre 2012

Un dito di untori

Sono stati anni di tic, di titicche titocche, dove si è premuto sempre sullo stesso tasto. Quello del ciclo di Prandelli, della sua irripetibile bontà che avrebbe ammazzato qualsiasi futuro, e il meccanismo vizioso consisteva nel riattivare sempre il solito tasto. Un sapore forte di cloro e poi di Clero nella sua parte di fedeli alla direzione di una religione finita poi in sclerosi. Tra scenari apocalittici, calendari Maya rivisitati in chiave vuturista, pontellizzazioni, smobilitazioni, consessi di Mamme Ebe, di efebi senza i sessi ma con l’organo riproduttivo in testa come un palco di corna, come fosse un marchio, come quello sul cofano della Merdeges, come un comizio sul palco dove tutti gli altri erano caio, sempronio e soprattiutto tizio, dove si raccontava un futuro scorfano fatto di branchi e Branchini illuminati dalla lampara, e di separati in casa sparati dalla lupara, e rosate di rosiconi. E dopo le Coop e le Unicoop Firenze era diventa la città del loop, del corto circuito della passione, del tifo contro, dell’autoscontro del cugino di Vargas, dell’autotreno che ha portato i tifosi fuori dal seminato e i giocatori fuori dalla professionalità, e del treno che ci portava Kharja fuori dalle palle, e di Montolivo che ha traccheggiato così tanto, che per rallentare il più possibile la risposta alla proposta di rinnovo, la Branchini band gli ha messo un dosso sulla trachea, quello che poi in molti avrebbero scambiato per il gozzo. Un pozzo, sembrava un pozzo senza fine, mentre ci ricordavano che Pozzo aveva trovato il punto G del calcio, un pozzo riempito di recriminazioni, di rimpianti dall’accento bresciano, di tutti contro tutti tra sganassoni e ciccingomma, nasi finti, pernici, Tutunci, Preziosi, Zamparini, Jovetic già venduto e Della Valle prima da difendere e poi da condannare per Calciopoli, anche peggio di Moggi. E poi l’oggi dove qualcuno ha fermato quel dito che riarmava continuamente il cane dell’autolesionismo di un pomeriggio da cani, e tra questi dolci poggi la gara è diventata quella di mettere la propria impronta digitale su quel dito, per prendersi i meriti, e poi di ciucciarselo come fa Totti, e ognuno la pensi come crede e assegni pure i meriti a chi vuole perché l’importante è che oggi a quel dito gli sia venuta l’artrosi, il circolo vizioso si è interrotto e si è ricominciato a pensare in maniera più sana anche davanti a una sconfitta, Montella & Co sembrano riusciti davvero a far saltare quel meccanismo infernale, hanno fatto saltare il banco dei pegni dove era stata portata la passione. La scelta degli uomini più adatti a quel tipo di gioco ha fatto il miracolo, e se non fosse stato per questa settimana di agonia azzurra, Prandelli oggi sarebbe a sedere ai giardini della nostra memoria, pensionato sulla panchina dei ricordi più cari, cittadino onorario. Siamo riusciti in pochi mesi a ribaltare una situazione che per qualcuno più sfortunato ancora oggi porta i segni della convalescenza psicologica, fatta di risvegli notturni, di flash reduci da guerre vietnamite, Kmher Rossi come Delio e sogni rossi dalla rabbia da non poter sopportare più i Della Valle, Ljajic e le loro camicine finto sudate, e Pol Potter fratello di Henry, unico maghetto in grado di riportarci Prandelli. Siamo passati da anni nei quali la sconfitta ricompattava gli untori del pessimismo mentre la vittoria era roba da partigiani da festeggiare nascosti sulla collina di Fiesole, e domenica a Chievo, dopo la vittoria, ci sarà la cerimonia della distruzione del marchingegno attivato da quel dito di olio, perché siamo passati da un palla che scottava tra i piedi a un magnifico giropalla che ha bloccato quel meccanismo infernale grazie alla cottura a scottadito.