Sono
stati anni di tic, di titicche titocche, dove si è premuto sempre sullo
stesso tasto. Quello del ciclo di Prandelli, della sua irripetibile
bontà che avrebbe ammazzato qualsiasi futuro, e il meccanismo vizioso
consisteva nel riattivare sempre il solito tasto. Un sapore forte di
cloro e poi di Clero nella sua parte di fedeli alla direzione di una
religione finita poi in sclerosi. Tra scenari apocalittici, calendari
Maya rivisitati in chiave vuturista, pontellizzazioni, smobilitazioni,
consessi di Mamme Ebe, di efebi senza i sessi ma con l’organo
riproduttivo in testa come un palco di corna, come fosse un marchio,
come quello sul cofano della Merdeges, come un comizio sul palco dove
tutti gli altri erano caio, sempronio e soprattiutto tizio, dove si
raccontava un futuro scorfano fatto di branchi e Branchini illuminati
dalla lampara, e di separati in casa sparati dalla lupara, e rosate di
rosiconi. E dopo le Coop e le Unicoop Firenze era diventa la città del
loop, del corto circuito della passione, del tifo contro,
dell’autoscontro del cugino di Vargas, dell’autotreno che ha portato i
tifosi fuori dal seminato e i giocatori fuori dalla professionalità, e
del treno che ci portava Kharja fuori dalle palle, e di Montolivo che ha
traccheggiato così tanto, che per rallentare il più possibile la
risposta alla proposta di rinnovo, la Branchini band gli ha messo un
dosso sulla trachea, quello che poi in molti avrebbero scambiato per il
gozzo. Un pozzo, sembrava un pozzo senza fine, mentre ci ricordavano che
Pozzo aveva trovato il punto G del calcio, un pozzo riempito di
recriminazioni, di rimpianti dall’accento bresciano, di tutti contro
tutti tra sganassoni e ciccingomma, nasi finti, pernici, Tutunci,
Preziosi, Zamparini, Jovetic già venduto e Della Valle prima da
difendere e poi da condannare per Calciopoli, anche peggio di Moggi. E
poi l’oggi dove qualcuno ha fermato quel dito che riarmava continuamente
il cane dell’autolesionismo di un pomeriggio da cani, e tra questi
dolci poggi la gara è diventata quella di mettere la propria impronta
digitale su quel dito, per prendersi i meriti, e poi di ciucciarselo
come fa Totti, e ognuno la pensi come crede e assegni pure i meriti a
chi vuole perché l’importante è che oggi a quel dito gli sia venuta
l’artrosi, il circolo vizioso si è interrotto e si è ricominciato a
pensare in maniera più sana anche davanti a una sconfitta, Montella
& Co sembrano riusciti davvero a far saltare quel meccanismo
infernale, hanno fatto saltare il banco dei pegni dove era stata portata
la passione. La scelta degli uomini più adatti a quel tipo di gioco ha
fatto il miracolo, e se non fosse stato per questa settimana di agonia
azzurra, Prandelli oggi sarebbe a sedere ai giardini della nostra
memoria, pensionato sulla panchina dei ricordi più cari, cittadino
onorario. Siamo riusciti in pochi mesi a ribaltare una situazione che
per qualcuno più sfortunato ancora oggi porta i segni della
convalescenza psicologica, fatta di risvegli notturni, di flash reduci
da guerre vietnamite, Kmher Rossi come Delio e sogni rossi dalla rabbia
da non poter sopportare più i Della Valle, Ljajic e le loro camicine
finto sudate, e Pol Potter fratello di Henry, unico maghetto in grado di
riportarci Prandelli. Siamo passati da anni nei quali la sconfitta
ricompattava gli untori del pessimismo mentre la vittoria era roba da
partigiani da festeggiare nascosti sulla collina di Fiesole, e domenica a
Chievo, dopo la vittoria, ci sarà la cerimonia della distruzione del
marchingegno attivato da quel dito di olio, perché siamo passati da un
palla che scottava tra i piedi a un magnifico giropalla che ha bloccato
quel meccanismo infernale grazie alla cottura a scottadito.