Il Natale è passato in fretta così come Alonso, ho rivisto un paio di volte la partita con la Juve, così come le vecchie foto di famiglia, la riapertura di certe scatole con le polaroid riscuote più successo della tombola dalle mie parti, roba da parenti nelle brevi parentesi tra un’abbuffata e l’altra. Ricordi, il parentame evoca ricordi, ci sono cose che mi fanno rivivere con dolce struggimento i tempi lontani della mia infanzia, quando per esempio andavamo a rubare la frutta. Perché Firenze nasconde un’anima verde insospettabile, un’anima tergale fatta di giardini ridondanti, e basta una finestra sul dietro per dimenticare il traffico, il marmo e la pietra serena. Ieri sera, appena calato il tramonto, ho visto alcuni bambini che scavalcavano il muro del vicino per andare a rubargli la frutta. Come facevo anche io con i miei amici quando avevo la loro età. “Finalmente dei bambini che con queste piccole monellerie innocenti stanno alla larga dal freddo mondo dei videogiochi e di internet”. E mi è preso un sottile struggimento mentre li ho visti arrampicarsi come scimmie su un albero di albicocche, mentre uno di loro teneva a bada con un coltello l’anziano proprietario. Noi scavalcavamo anche i cancelli dello stadio e ci facevamo scavalcare dalle bambine dopo aver organizzato giochi con il solo scopo di guardargli le mutande. Non a caso amiamo Cuadrado, uno dei pochi in grado di scavalcare l’avversario, e poi c’è la cosa che amo di più insieme alla Fiorentina. Una passione che ho fatta mia grazie allo zio Sergio che era un tipo molto deciso. Un uomo sbrigativo, un po’ ruvido ma efficace come una labbrata, e quando si mise in testa di insegnarmi ad andare in bicicletta, non perse molto tempo. Mi mise su una Romanelli senza freni e mi buttò giù per la discesa di Marignolle, giù dritto verso Porta Romana. Fui costretto ad imparare in pochi secondi, ricordo che riuscii in qualche modo ad affrontare la prima curva, poi la seconda e quindi tutte le altre, mentre pian piano la bicicletta rallentava la sua corsa, perché fortunatamente, alla fine di quella serie di curve riuscii ad imboccare la salita del San Gaggio sano e salvo. Mi fermai con il cuore che andava a mille, mentre dentro di me ringraziavo lo zio, che con quel metodo così rude era riuscito ad insegnarmi in pochi secondi quello che altri ci avrebbero messo giorni. Da quel giorno non ho mai smesso di amare le curve.