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lunedì 9 settembre 2013

Non posso vivere senza la tua assenza

In questi giorni di poco calcio e di profonde riflessioni mi torna alla mente il Torcini, la tabaccheria di famiglia all’inizio di via Romana, quasi ancora piazza della Calza, una sorta di avamposto prima di entrare dritti nel cuore di Firenze. Perché a lui piaceva molto vendere le Marlboro da 10 e servire la spuma al cedro da 100, per dire insomma di come anche fare un lavoro che piace aiuta moltissimo nella vita, previene le malattie somatiche, non spinge al tabagismo proprio con grande rammarico del Torcini. Tabagismo o derivati, droghe, o come chi sniffa la colla oppure come chi si fa di tabasco, scambiato nei teatrini televisivi improvvisati per cavalcare i disagi giovanili, per un diversamente bulimico, uno costretto a magiare tanto ma solo per poter distribuire la salsa. Insomma, se tutti facessero un lavoro dal quale estrarre non solo il reddito ma anche un’appagamento professionale ci sarebbe molta meno psoriasi a giro e anche molta meno proliferazione di sigarette elettroniche. Oggi c’è il problema di trovare il lavoro mentre negli anni 70 in San Frediano si affacciava per la prima volta una nuova tendenza, quella di chi era più dedito alla contemplazione del lavoro, Santo Spirito è stata per anni una sorta di comune dove si rifugiavano i cosiddetti contemplativi, coloro che in parole povere professavano la degenerazione di una passione sana come poteva essere quella che ci metteva il Torcini nel fare il tabaccaio, in Oltrarno alcuni si erano incamminati verso quella deriva pericolosa, che a sua volta  innescava  giri viziosi come appunto la droga e l’alcool. Prendiamo il Bambi che prima di indossare l’eskimo e sorseggiare il metadone al posto del chinotto era uno di quei contemplativi di cui parlavo, perché a lui il lavoro piaceva tanto, addirittura lo affascinava, così tanto che poteva stare seduto per ore a guardarlo, e l’ozio si sa è il padre dei vizi. Anche il mezzo che usiamo per comunicare in questo momento è diventato causa di svariati problemi, soprattutto un’opportunità é vero, se utilizzato però nella maniera appropriata, altrimenti diventa un mondo dentro al quale la gente si nasconde sostituendolo ala vita reale, una cantina dalla quale guardare fuori con il periscopio e il puzzo di muffa esistenziale, e non la cantina intesa come quella dove andavamo a divertirci, a ballare o ad annusare l’altro sesso, diciamo pure che quando ancora la “rete” non c’era esistevano altri problemi come invece il puzzo delle ascelle o l’alito pesante, ma ci si guardava negli occhi, si poteva gesticolare e a volte ci scappava anche un moccolo. La mia personale classifica delle grandi disgrazie dello scorso secolo infatti è Hiroshima 45, Cernobyl 86 e Windows 95. La mia generazione ha conosciuto l’eroina, molti miei amici ci hanno sbattuto la faccia e qualcuno di loro oggi non c’è più, io sono stato più fortunato pur essendo abbastanza problematico, ma ero attratto da altre cose, mi facevo domande contorte, contestavo, esprimevo il mio disagio cercando lo scontro con chi rappresentava le istituzioni o con chi era delegato alla nostra istruzione, pur sbagliando per fortuna non lo facevo con l’ago, e se ritenevo che la matematica non fosse necessaria glielo dicevo direttamente in faccia al De Vellis senza tanti giri di parole, naturalmente subendone conseguenze gravissime, come quando dopo un 3 e la ramanzina che ne seguì gli risposi che se Dio avesse voluto che usassimo il sistema metrico decimale, Gesù avrebbe avuto dieci apostoli, poi gli dissi in maniera sprezzante rimarcando oltretutto che aveva sbagliato strada perché quello non era il liceo scientifico ma l’Istituto d’Arte, feci un’analisi ingiusta della sua vita personale, espressa solo per ritorsione, per un 3 ampiamente meritato, gli dissi che preferivo la filosofia perché mi permetteva di fare considerazioni più profonde di una regoletta per calcolare un espressione, e gli dissi che ero convinto, riferendomi a sua moglie, che è molto difficile far felice il proprio marito; è più facile far felice il marito di un'altra. Non la prese affatto bene, tanto che si sentì male, e il fatto che si sentì male lo si sentì invece molto bene fino giù nell’”Ottagono” perché dalla rabbia stramazzò per terra portandosi dietro seggiole e cattedra. Io invece, oggi mi porto dietro un ottimismo immotivato, niente insomma che lo giustifichi, probabilmente sono un cretino e finché non me ne accorgo sono felice così, ho lavorato per un periodo in un’azienda all’avanguardia nelle norme anti-infortunistiche, nella quale avevo fatto anche una discreta carriera fino ad avere un ruolo di responsabilità, e il primo giorno che mi sono potuto avvalere di un certo potere decisionale feci scrivere su una parete dell’azienda “In caso d’incendio, rallegrarsi”, rovinando tutta la mia carriera. Dicevo che ho vissuto accanto alla droga, e quindi vedevo cosa stava accadendo alla mia generazione, ho vissuto drammi catalogati come overdose, ho perso pezzi per strada di quella mia generazione sotto lenzuola bianche, una generazione che ha avuto il merito di scoprire l’Aids, siamo almeno stati primi in qualcosa, ad essere considerati dei nuovi appestati, ma è come se il mio compito fosse stato quello del menestrello, di guardare da fuori e raccontare. In quei momenti usavo la filosofia come mastice per fissare i pensieri, sdrammatizzavo per cercare di continuare a guardare il futuro con gli occhi ancora velati di speranza, del resto eravamo ancora troppo giovani per non credere più a niente, e allora ogni volta che arrivava l’eroina al bar cercavo di esorcizzare il terrore con l’ironia esprimendo un pensiero da menestrello qual’ero “Quando i giochi sono fatti, i fatti cominciano a giocare”.